di Sabrina Mechella
La questione lupi sta tendendo banco in questi giorni sulle cronache nazionali, in ballo c’è una nuova legge firmata dal ministro dell’Ambiente Galletti che prevede l’abbattimento controllato. È notizia di giorni fa un allarme lupi nella Tuscia e precisamente a Grotte S. Stefano e il sindaco di Viterbo, Leonardo Michelini, ha dichiarato di aver disposto un tavolo tecnico con la prefettura per “la gestione della situazione a tutela della pubblica incolumità e degli allevatori della zona”. Molte le domande inevitabili, a questo punto: chi dovrebbero essere gli attori presenti al tavolo? Quali i poteri di intervento? Quali sono i segnali inequivocabili che si stia parlando davvero di lupi e quali i provvedimenti che devono adottare gli allevatori? Basta un avvistamento per stabilire che si tratti effettivamente di questi animali? Se pure esistono lupi sul territorio, sono in numero tale da costituire pericolo per incolumità pubblica e per gli allevatori? Lo abbiamo chiesto a Christiana Soccini, ricercatore naturalista ed ecologista che segue da tempo queste questioni.
La presenza del lupo sull’intero arco appenninico è un fatto felicemente consolidato da qualche anno dopo la strage venatoria che lo ha pressoché estinto sulle Alpi e confinato sull’Appennino meridionale. L’espansione della specie ha seguito la presenza delle sue prede predilette: cinghiali ed altri ungulati. La presenza di allevamenti bradi e male custoditi costituisce una ghiotta occasione per il lupo che però si tiene distante da aree dove risulta sgradito e perseguitato e dove la facile predazione di un agnello può costare la vita.
Da pochi giorni le popolazioni italiane sono state riconosciute come buona specie, ovvero specie a sé stante differenziatasi da quella centro europea.
Atteso da decenni, il Piano di gestione del lupo in Italia è stato presentato nella sua versione definitiva al Ministero dell’Ambiente – unico organo decisore in merito ed autorizzato ad intervenire sulla specie - nei mesi scorsi. Il Piano prevederebbe una percentuale di abbattimenti fino al 5% della popolazione lupina, l’abbattimento degli ibridi lupo/cane e la revisione della L. 281/91 sul randagismo. Il Piano distingue gli interventi sui lupi appenninici e quelli alpini, dove il conflitto con la specie è limitato e dove nelle aree di presenza della specie sono attuate da tempo e con efficienze ed efficacia la misure di prevenzione del conflitto da parte degli allevatori e dove il problema del vagantismo e randagismo canino è limitatissimo e sotto controllo.
I tecnici si sono divisi sulla bontà del Piano fra chi ritiene, non avendo ancora una chiara visione delle consistenze numeriche né dell’ecologia di popolazione dei lupi appenninici, che indicare una quota per gli abbattimenti non sia opportuna. Altra obiezioni riguardano la fattibilità degli abbattimenti che dovrebbero riguardare solo esemplari prescelti in modo da non inficiare i complessi rapporti famigliari della specie. Alle conclusioni dei redattori del Piano (alcuni ricercatori e rappresentanti di aree protette ed enti locali o Regioni) viene contestata anche l’impossibilità di riconoscere “a vista” fra lupi ed ibridi, problema evidente a maggior ragione per gli eventuali incaricati delle uccisioni. Inoltre la certa distinzione fra lupo ed ibrido non appare sempre possibile nemmeno con le tecniche di analisi del DNA.
Inoltre il problema riguarda l’abbattimento non solo di una specie protetta a livello europeo ma anche eventuali ibridi o cani simil lupo attualmente protetti dalla Legge sul randagismo.
Per le proteste vigorose sollevatesi da tutti gli strati sociali e gruppi di interesse oltre che dalle divisioni fra ricercatori sull’attuabilità e bontà del piano su cui pesa l’accusa di strumentalizzazione politica ed inutilità risolutiva di un problema nemmeno ben chiaro, la decisione sul varo del Piano è stata rinviata a fine febbraio.
Per quanto riguarda la Tuscia e le aree contigue alla Maremma tosco-laziale, ogni anno sono noti casi di abbattimento illegale di lupi, attuate con ferocia, con esibizioni dei corpi martoriati da parte degli autori delle mattanze e rivendicazioni palesi. Nessuno risulta mai essere stato perseguito per questo.
L’area inoltre non è mai stata interessata da un Piano di monitoraggio, contenimento e gestione del randagismo nonostante i fondi destinati al territorio dal varo della stessa L. 281/91. Nemmeno il vagantismo canino, la cui consistenza trova radici anche fra i cani da pastore incustoditi e non addestrati alla guardiania, è mai stato affrontato con competenza e decisione.
Le lagnanze degli allevatori riguardano la lentezza dei rimborsi statali previsti a seguito di accertata predazione di capi allevati da parte di lupi. Rimborsi che prevedono pagamenti pro capo compresi fra i 30 ed i 400€ e le cui tempistiche variano anche in virtù dell’elargitore del rimborso che può essere la Regione o un Ente parco. Oltre all’assenza di strategie preventive – recinzioni anti-lupo, cani da guardiania addestrati e controllati costantemente, presenza dell’allevatore -, anche la difficoltà di discernere fra predazione da parte di cani o lupi o ibridi che richiede competenze di alta specializzazione, ha lasciato aperte le porte alle truffe su capi malati e lasciati predare appositamente da canidi. Sulla possibilità di riconoscere senza errori la predazione da parte di un lupo non resta che l’analisi del Dna, a meno di rarissimi segni inequivocabili e la contestuale assenza di fattori dubitativi. Bisogna poi aggiungere che probabilmente fra i rischi di impresa bisognerebbe inserire la perdita di capi a seguito di predazione: esattamente come accade per qualsiasi attività colpita da eventi straordinari.
La provincia ed i comuni viterbesi non possono far altro che attendere le indicazioni ministeriali sulla gestione del conflitto pastori lupi per le azioni che coinvolgono al gestione della specie e dei randagi. Sicuramente possono pretendere da subito che gli allevatori attivino rigorosi interventi di prevenzione delle predazioni, così come le ormai abbondanti esperienze anche appenniniche descrivono. Potrebbero ad esempio attivare corsi di formazione per allevatori e per i loro cani. Necessariamente bisogna che la politica territoriale si attivi sul versante randagismo come da tempo si necessita anche per limitare i costi dei canili-cronicario, strutture che proprio la mancata applicazione della L. 281/91 ha determinato a creare a scapito delle intenzioni della stessa legge e degli animali coinvolti loro malgrado.
Segnalazioni si hanno sull’intero territorio viterbese da sempre. Il che non indica la presenza stabile di branchi di lupi né che a tali segnalazioni corrispondessero e corrispondano effettivamente ad esemplari di lupo. Queste le posizioni dei tecnici incaricati per diversi anni dalla Provincia di Viterbo di indagare lo status del lupo nel viterbese.
Non risultano aggressioni alle persone. Eventuali predazioni da lupo o cane sono riconducibili, come detto, ad animali al pascolo lasciati incustoditi ed impossibilitati alla fuga.
Il viterbese mostra un elevato grado di wilderness ed oggi più che mai questo rappresenta il jolly vincente per l’attuazione di politiche vincenti di promozione turistica, oggi unico volano certo per l’economia italiana e locale. L’indignazione trasversale sollevata dalle proposte di abbattimento di una specie perseguitata da sempre e redenta solo da pochi anni indica chiaramente quale sia il sentire ed il volere degli italiani verso la tutela dell’ambiente e delle sue componenti.
Lunedì 6 febbraio 2017
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