di Sabrina Mechella
Cristina Cappelloni e Giovanni Di Meo, meno di 30 anni, due ragazzi della provincia viterbese nel pieno della bellezza, provenienti da famiglie tranquille, senza apparenti problemi economici. Hanno scelto di togliersi la vita a distanza di pochi giorni – lei il 15 gennaio, lui il 2 febbraio di quest’anno - nell’incredulità di chi li conosceva e frequentava e trascinando nel dolore i propri familiari. Ma perché due giovani dalla vita così normale, apparentemente senza problemi particolari, hanno deciso di porre fine alla propria vita? «I motivi, probabilmente, nessuno li saprà mai perché per giudicare bisognerebbe conoscere le dinamiche interne alla loro vita» commenta Stefano Scatena, psicologo e psicoterapeuta viterbese. Lo specialista conosce molto bene il mondo giovanile perché da venti anni segue i ragazzi delle scuole superiori in un istituto viterbese. Con lui cerchiamo di comprendere meglio cosa tormenta i giovani d’oggi e come cercare di intercettare i disagi che li possono spingere a un atto così definitivo. «Il suicidio di questi due ragazzi, molto simili per età e classe sociale è interessante e anche molto triste – afferma lo psicologo -. Ci sono moltissimi suicidi nella provincia di Viterbo, non ho fatto i conti per vedere se c’è una differenza a livello nazionale ma non credo si discosti molto. Sicuramente colpisce il fatto che questi due giovani hanno caratteristiche di desiderabilità sociale estreme: chiunque di noi vorrebbe essere nei panni della ragazza che si è tolta la vita e del suo coetaneo, per la classe sociale e perché erano di successo, belli di aspetto, appartenenti a famiglie che non avevano problemi economici. È chiaro che le cause di questi atti vanno ricercate a livello intrapsichico e a livello sociale. Quello che le persone non sanno - ma che sappiamo bene noi addetti ai lavori - è che la causa dei suicidi giovanili non è mai la depressione, è molto raro che un depresso lo faccia»
Come prevenire questi atti estremi da parte dei ragazzi?
«Con il dialogo, che spesso in famiglia manca. Per dialogo vero intendo un figlio che racconta le emozioni la sera a cena ai propri genitori: “Oggi sono stanco, oggi sono arrabbiato, sono triste”. Sembra che con i figli ci sia un dialogo ma è finto, perché non basato su un livello emozionale, ma sugli eventi della giornata, superficiale. Sono convinto, per la mia esperienza clinica, che il dialogo sia tutto con i figli. Tutti i giovani che vengono da me lamentano questo»
Qual è la fase in cui istaurare un vero dialogo?
«Dalla prima infanzia: è da quel momento che si pongono le basi per un rapporto vero con i propri figli. Se dalla nascita fino ai 12 anni si è stabilito un rapporto pieno di amore, dove c’è un’educazione alle emozioni, non si perde durante la fase più critica dei giovani, che è l’adolescenza e poi successivamente. C’è anche il discorso sull’autorevolezza del genitore, perché un adolescente non vede più il genitore come punto di riferimento»
Cosa consiglia ai genitori per cercare di riaprire un dialogo?
«Tutte le società, da sempre, hanno un momento in cui ci si ritrova insieme ed è quello della cena. Può sembrare un consiglio banale per essere dato da uno psicologo, invece è assolutamente pregnante. Spegnere la televisione e parlare in maniera emozionale con i propri figli: “Come sei stato durante la giornata, sei arrabbiato, ti vedo un pochino triste, sai anche a me è capitata questa cosa e ho reagito così…”. Si può recuperare un dialogo che non c’è stato, anche ricorrendo al consulto psicologico quando serve. Può sembrare un discorso di parte il mio, ma spesso fa davvero la differenza, Insomma: genitori, spegnete la televisione e parlate con i vostri figli»
Perchè ci si toglie la vita?
«La causa è la disperazione e ad affermarlo non sono io ma studi accurati i quali dimostrano chiaramente che il motivo di questo gesto è la mancanza di soluzione a un problema, che non è detto che sia di gravissima entità. Può essere la perdita di un fidanzato, una riduzione economica relativa, una situazione familiare spiacevole, una figuraccia in ambito sociale. La persona cerca varie soluzioni nella sua mente ma non le trova. Quando la soluzione che trova nella sua mente non è concepibile per essere attuata decide per la scelta estrema del suicidio. E questo può accadere, come in questi due casi, nel culmine dell’esistenza. Si stanno togliendo la vita, ultimamente, le ultime persone da cui uno si aspetta un gesto del genere».
Come mai?
«In realtà c’è un grande cambiamento sociale. Un giovane che si trova in quella fase delicata di passaggio tra adolescenza ed età adulta conclamata vive un terremoto nostra società. Innanzitutto perché non ci sono più riti di passaggio e c’è una scarsissima tolleranza alla frustrazione. A questa generazione non viene più insegnato a gestire l’insuccesso, a “tenere botta” come si dice. Mancano i sistemi di valori, di pensiero e di sostegno sociale che insegnano a gestire le crisi. Mancando questo ed essendoci fortissime pressioni sociali che sono ben nascoste ma molto presenti, succede che alcune persone scelgono il suicidio come soluzione a un problema, quando in realtà è una soluzione definitiva a un problema temporaneo»
Non riescono dunque a capire che soprassedendo, facendo passare del tempo, poi una soluzione si sarebbe trovata comunque?
«Assolutamente. Questo succede perché, come affermava lo psicologo Umberto Galimberti, il giovane del 2015 non vive più il futuro come una promessa ma come una minaccia. La mia generazione, quella dei 40enni, 50enni per capirci, è cresciuta nell’infanzia con l’idea del futuro come promessa: se io lavoro, se studio, se mi do da fare raggiungerò uno stato soddisfacente. I giovani cresciuti dal 1990 in poi, vivendo la crisi nell’adolescenza, vivono il futuro con angoscia. Del resto tutto intorno è minaccioso: il sistema politico non cambia, ci sono le minacce terroristiche nel mondo, il contesto culturale intorno a noi spaventa. Credo di poter affermare che il suicidio sia un atto di accusa verso la società che ti dà degli obiettivi di successo da raggiungere, ma non ti dà i mezzi per farlo. Questo crea un disagio che, in mancanza di strumenti che insegnano a distanziarsi dalla sofferenza e dal fallimento sociale, rende incapaci a gestire la frustrazione. Il suicidio, che è una prerogativa della società occidentale, è definito anomico (mancanza di solidarietà) proprio per questo»
Quanto contano i social network in tutto questo? Che ruolo hanno?
«Contano molto perché quanto ci può accadere di socialmente inaccettabile, di vergognoso, prima restava nella cerchia delle conoscenze, oggi è di dominio pubblico. L’apparenza poi conta moltissimo, i ragazzi devono essere tutti delle piccole web star. Oggi un giovane giudica la sua autostima a seconda dei like che prende su Facebook e mantenere questa immagine pesa molto. Ma accusare i social network come causa di suicidio è sbagliato, perché comunque i social non isolano dai rapporti umani: secondo me le problematiche dei giovani non nascono mai dai social network, è che non si sentono compresi all’interno della famiglia, anche in virtù della paura di fallire che tutti, indistintamente, hanno. I giovani che vengono da me lamentano questo, sempre»
Come fa un genitore a cogliere i segnali di pericolo?
«Ci sono dei segnali di disagio che andrebbero colti fino dalle scuole superiori. È un tema a me molto caro perché il compito dello psicologo all’interno della scuola è proprio quello di individuare i segnali di disagio e prevenirli. Ma spesso questo psicologo scolastico non c’è o quando c’è non ha le competenze adeguate. Spesso si mira a riempire quel posto vuoto e basta ma, di fatto, se si fa una ricerca in questo senso, si scopre che i ragazzi nemmeno conoscono il nome del professionista che ricopre questo ruolo nel loro plesso scolastico. Gli istituti viterbesi sono dotati di queste figure ma si capisce che il servizio non funziona quando alunni di altre scuole chiamano me o altri colleghi»
C’è un aumento di richieste di aiuto da parte dei giovani quindi?
«Moltissimo, a livello culturale influenze americane di canali come Mtv e serie televisive hanno permesso a questi ragazzi di seconda, terza superiore, di approcciare la figura dello psicologo con tranquillità. Tornando ai segnali di disagio, un bravo genitore dovrebbe essere capace di coglierli. Per esempio una fase di mutismo che c’è nella persona, una diminuzione dei voti a scuola e una riduzione dei rapporti sociali, una fissazione su un determinato comportamento, ad esempio i videogiochi, l’insonnia. Poi, la correlazione e le ricerche ci dicono anche una visita medica inaspettata prima del gesto. Ossia, chi decide di suicidarsi, spesso, pochi giorni prima si rivolge al medico curante. Non sappiamo il perché. Ovviamente questo non deve allarmare i genitori ogni volta che il figlio chiede una visita medica. I numeri dei suicidi che conosciamo, purtroppo sono la punta dell’iceberg, perché spesso sono mascherati. Il caso del ragazzo che non riesce a conquistare la donna che amava, esce dalla discoteca e corre come un pazzo in auto per sfogare la rabbia e poi si schianta, quello è un suicidio mascherato. E sono davvero tanti»
Venerdì 6 febbraio 2015
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