Viterbo | personaggi
Il parroco viterbese, 71 anni compiuti proprio ieri, racconta in questa auto-intervista sua esperienza di missionario, tra case bruciate, mani mozzate ai bambini dai ribelli, donne violentate, ma anche la fame e la malattia di questa povera gente
Don Maurizio Boa, parroco viterbese, 71 anni proprio ieri, una vita impegnata come missionario ad aiutare gli ultimi in Sierra Leone, tra gli orrori della guerra civile e la terribile piaga del virus Ebola. Un uomo come ce ne sono pochi, che racconta in questa auto-intervista la sua esperienza di vita negli orrori del conflitto di quel paese, tra case bruciate, mani mozzate ai bambini dai cosiddetti ribelli, donne violentate, ma anche la fame e la malattia di questa povera gente. Eccola.
Leggete e venite ad aiutarmi: intervista a don Maurizio Boa, missionario in Sierra Leone
Ciao, don Maurizio: da quanto tempo sei in Africa?
Con la mente e con il cuore sono in Sierra Leone dal 1980 e anche un pochino prima. Già appena se ne stava parlando ho cominciato ad interessarmi della nascitura missione e poi ho seguito i primi sviluppi sempre coinvolgendo le parrocchie in cui mi trovavo a svolgere il mio apostolato. A Padova abbiamo fatto nascere con il gruppo giovani il progetto delle “1.000 lire al mese”, la raccolta di carta, ed è sorto il gruppo missionari. Tempi di un incredibile entusiasmo che ci ha fatti sentire cittadini del mondo. E poi a Viterbo, anche lì lasciandoci coinvolgere dall’entusiasmo dei progetti, ansiosi di conoscere la realtà missionaria della sierra Leone.
Ricordo il primo pickup Toyota rosso splendente che abbiamo spedito in Sierra Leone e poi quello verde bottiglia: erano occasioni per crescere missionari nel cuore e sentirci anche da lontano coinvolti nell’attività dei nostri amici in missione.
In questo periodo ho avuto la fortuna di andare in Sierra Leone tre volte a conoscere la realtà e ad entusiasmarmi per la missione. E finalmente, alla fine nel 1996, sono approdato in Sierra Leone e non ho avuto tempo di guardarmi attorno per vedere cosa potevo fare; la guerra stava già programmando per me la mia attività.
La vita nei campi profughi di Clay factory, di Juy, di Waterloo e di Approved Schoool e poi Murray Town mi ha aperto gli occhi e il cuore sulla situazione di paura, di povertà e di miseria della gente e non ho potuto star a guardare senza lasciarmi coinvolgere.
Dove lavori e di cosa ti occupi esattamente? Lavoro? Se lavorassi sarei già in pensione, l’età ce l’ho e i miei fratelli più giovani già lo sono. Non ho mai sentito la mia vita in missione come un lavoro, ma come un impegno a vivere il carisma del Murialdo e il mio essere religioso e sacerdote.
Non ho avuto il tempo di pianificare il come viverlo. Non ho avuto nemmeno il tempo di guardarmi attorno perché dovunque udivo il richiamo forte a donare tempo ed energie alle vittime della guerra.
“I can’t piss myself”… non posso pisciare da solo. Jenku Sesay che entra in chiesa disperato in cerca di un aiuto per un urgente bisogno corporale. È senza mani, senza tutte e due le mani ed è giovane.
“Hanno gettato la mano della mia bambina ai cani”: è una madre disperata, anche lei senza una mano, che continua a ripetere il ritornello amaro, descrizione di un gesto che per sempre ha fotografato nella sua mente e nel suo cuore: il terribile momento in cui i ribelli hanno tagliato la mano della sua bimba, sei anni, Damba (cerbiatta) e l’hanno gettata ai cani. E poi Emma, Sorie, Fatmata, Catko, Abu Bakar e tutti gli altri che ora vivono nelle case famiglia Murialdo in cerca di un futuro che li veda protagonisti attivi di un rinnovato impegno di vita. Sono 47 oggi nelle quattro case famiglia e andiamo avanti.
Una volta quando ero parroco, viceparroco, animatore di gruppi mi pareva di fare il massimo volendo bene a tutti quei giovani che mi circondavano, era una vita piena e felice e dedicata. Ma poi alle 6, 7 di sera, a volte a mezzanotte, se ne andavano a casa e portavano i loro concreti problemi in famiglia. Ora invece questi qui li portano a me e mi chiamano Padre e quel padre non è più un titolo di rispetto e basta, è il segno del loro sentire il mio coinvolgimento nella loro vita. Ecco, se è un lavoro, faccio il padre e mi accorgo ogni giorno di più che essere buon padre è difficile.
Il ricordo più bello o la soddisfazione più grande della tua esperienza missionaria?
È vero che sono facile alla commozione. I momenti più emozionanti sono legati al battesimo dei ragazzi della casa famiglia. La consegna delle chiavi di casa agli amputati, (abbiamo loro 485 case insieme a Norvegian Refugee Council), la loro gioia contagiosa, e la gratitudine espressa: sono stati momenti di profonda emozione.
La nascita di Lucy e Cristiana a Murray Town camp, un inferno di sporcizia e malattie; in quei momenti mi veniva in mente la canzone di De André: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. La determinazione di Sidimba: ve la voglio raccontare. Sidimba era una bambina di 9 anni. I ribelli le hanno troncato di netto il braccio destro. “Ora vale meno di una capra” mi ha detto di lei suo padre cieco. La porto via dal villaggio in casa famiglia Murialdo. Non è mai andata a scuola e per prepararla al prossimo anno scolastico la faccio frequentare alcune lezioni private. I compiti li fa con me, nel mio ufficio. La guardo mentre tenta di scrivere qualcosa con la sinistra lei da sempre abituata ad usare la destra.
La testa appoggiata sul foglio per tenerlo fermo. Fa un errore con la matita e tenta di cancellare una parola. il foglio si muove di qua e di là e non riesce a cancellare niente. Appoggia la testa, ma niente da fare il risultato non è soddisfacente. butta il quaderno per terra, ci si inginocchia sopra e cancella… ma il foglio si rompe. mi guarda sconsolata e scoppia a piangere, quasi a dirmi “vedi che non ce la faccio, i tuoi sforzi sono inutili”. Poi di colpo smette e dice a sé stessa: a dae tray again (ricomincio da capo). A piangere adesso tocca a me. Il sentirmi circondato da un sacco di gente che si lascia coinvolgere da tutto ciò che vivo e si fa in quattro per aiutarmi lo leggo come un segno grande della presenza della Provvidenza e ti fa sentir nascere dentro un rinnovato coraggio ed un impegno a non smettere anche se talvolta ti senti sopraffatto e inutile.
Sono soddisfazioni che nascono da sole, non le cerco, ma quando arrivano infondono grande energia per andare avanti.
E il momento più difficile, oppure la cosa che ti ha fatto più soffrire?
La guerra e le sue conseguenze sulla gente. Avevo paura, avevamo tutti paura. Non c’era salvezza attorno a noi, solo pericolo e morte, più per la gente che per noi. La gente è stata brutalmente assassinata, le case bruciate, a giovani e vecchi sono state tagliate le mani; tutto è stato rubato e alla gente non rimaneva altro che scappare per salvare la vita. Durante la guerra avevo la forza di tuffarmi in mezzo a questa disperazione della gente e al loro dolore, avevo la forza di accoglierli.
Altri momenti sono legati a particolari esperienze vissute.
La morte di Abdul mi ha segnato profondamente. Era domenica 7 gennaio 2000. La messa al campo profughi di Waterloo e di corsa a casa assaporando l’idea di un tranquillo pomeriggio domenicale. Al cancello mi aspetta già da molto tempo Mariatu, 14 anni, un figlio Abdul di 11 mesi, frutto di violenza quando i ribelli l’hanno rapita. Mi getta al collo le braccia senza mani (i ribelli gliele hanno tagliate tutte e due a lei e alla sorella Adama) e mi dice “corri mio figlio (mi pekin) sta morendo”. Con Roberto (un volontario pensionato con un animo grande nei confronti dei bambini) corriamo all’ospedale giusto in tempo per accarezzare il bambino per due minuti e vederlo morire tra le braccia di una zia.
La commozione è grande. Non era la prima volta che vedevo morire un bambino, ma questo era un bambino particolare come lo era anche la madre: la loro storia fatta di crudele sofferenza mi aveva colpito fin dal primo momento e non li ho lasciati più soli. Qualche volta veniva lei qui in casa mia, più spesso andavo io al campo profughi di Murray Town a trovarli in quel bugigattolo di casa fatta con un tendone di plastica. Dopo averlo accolto con qualche difficoltà stava ora imparando la gioia di essere mamma e l’impegno di far crescere un bambino. Ora tutto è finito e lei può tornare ad essere ragazzina, compagna tra le sue compagne, penso io, ma mi assale il dubbio che così non potrà mai essere perché un figlio resta figlio anche quando è morto e una mamma resta mamma perché il figlio ormai le è nato nel cuore e da là nessuno lo toglie più.
Sono stato sono stato profondamente scosso e turbato dall’incontro con una bambina di nove anni, Saffinatu, a cui i ribelli hanno “colato” plastica fusa negli occhi. Ho dovuto portarla in ospedale dove le hanno cavato gli occhi e atrofizzato il nervo ottico; non è stato un bel momento per me. Ricordo con commozione che al risveglio dopo l’anestesia, seduta sul letto, mi ha chiesto un panino con sardine e una aranciata. Ora è cieca e sofferente, ma ha già trovato amici che vogliono condividere la sua sofferenza. Mi fa soffrire il pensiero costante della situazione assurda di 63 persone a cui i ribelli hanno brutalmente tagliato tutte e due le mani, o tutte e due i piedi o cavato tutti e due gli occhi: menomati per sempre e nessuno li aiuta. Ricevono dalla nostra carità 50.000 leoni al mese (13 euro circa) che una volta bastavano per un sacco di riso e un poco di salsa, ma ora devono elemosinare per vivere.
Si dice che il missionario vive a volte sentimenti contrastanti: gioia ma anche rabbia, delusioni e insieme speranze. È vero anche per te? E perché avviene?
Vivere qui è un dono di Dio e non cesserò mai di ringraziarlo per aver voluto arricchire la mia vita con questa compagnia di poveri, ogni beatitudine è in loro e per loro e te la condividono fino a farti sentire in comunione con Dio, scriverò nel 2005, ed è sempre più vero. E questa è gioia continua che niente mi potrà togliere. Avevo imparato una volta a credere e a condividere l’idea che “se dai un pesce sfami per un giorno, se insegni a pescare sfami per la vita”. Di fronte alla evidenza della immediata necessità ho dovuto ricredermi. Le nostre porte sono aperte; viene un sacco di gente a imparare a pescare, le nostre scuole sono piene. Viene molta più gente a chiedere il pesce quotidiano. Sono ancora in tanti davanti alle nostre porte: mamme e bambini, ammalati, denutriti. Non tutto si può fare e a volte è con rabbia e senso di impotenza che guardo a tutta questa gente a cui è negato l'accesso al cibo quotidiano, alla scuola, alle medicine, a tutto ciò che sarebbe diritto di tutti avere. Per qualcuno, soprattutto giovani mamme con tanti piccoli bambini, sembra che la vita riservi sofferenza e difficoltà. Il paradiso è per loro certamente, ma intanto qui devono elemosinare, umiliandosi, anche il cibo quotidiano. La difficoltà diventa preghiera, ma a volte prevale la rabbia, lo sconforto e il senso dell’impotenza.
Vale la scusa che non si può far tutto quando ho la certezza di non aver fatto tutto il possibile? Aver a che fare con la fame altrui mi fa sentire vergognosamente ricco e, chissà perché, colpevole.
Signore, aiutami! qualche volta è preghiera, qualche volta è grido. È veramente strano ed incredibile che un paese che potrebbe vivere dignitosamente di proprie risorse sia costretto a chiedere l’elemosina per la sussistenza della propria gente.
E così quotidianamente mi trovo a che fare con la fame, le malattie, la povertà più estrema qui, mentre so bene che altrove l’abbondanza diventa spreco e medicine, cliniche sofisticate e dottori curano malattie immaginarie.
Paradossalmente, le ricchezze dei poveri (l’oro, i diamanti, la bauxite, il rutilio, che esistono in abbondanza sotto questa terra) diventano la loro condanna, la causa della loro sofferenza, stritolati come sono da forze avverse che si combattono per lo sfruttamento di queste ricchezze e la supremazia di potere. Da noi i bambini si chiamano con nomi propri Angelo, Marco, Giulia: i miei bambini amputati si sono messi un nome comune: “aiutamiavivere” (my name is helpmetolive) in un bel canto che hanno composto loro. Certo è così, sono consapevoli della loro situazione di deturpati nel corpo e nello spirito e la vita per loro è diventata una avventura doppiamente difficile. “Help me to live”: ce la farò? ce la faremo a far loro guardare il futuro con gioia e speranza? Io credo di sì, e allora avanti, fidando nella Provvidenza.
Occupandoti spesso di aiuti materiali e assistenziali, di promozione umana per i più poveri, come riesci a conciliare questo lavoro con la missione evangelizzatrice e l’essere prete tra gente anche di altre fedi religiose?
Ho un messaggio di salvezza da offrire, un annuncio di vita piena che è la certezza di un amore che non delude, ma offrirlo a chi ha fame senza dargli da mangiare mi pare un insulto e così offrirlo a chi ti chiede istruzione, o medicine o qualsiasi altra elementare necessità che è diritto di tutti avere, senza poterli concretamente aiutare mi pare un gesto vuoto, mi pare un insulto. Se sei senza una mano a te il tuo governo ti offre aiuto e protezione, tanto più se sei senza tutt’e due. Se vuoi andare a scuola, hai tutto l’aiuto necessario. Se sei ammalato o tanto povero da non aver niente hai sempre la certezza di un piatto e di una assistenza.
Qui no, qui si devono arrangiare il che vuol dire che vengono da te. Sanno che sei prete “Catholic Mission”, parte di una chiesa che crede che senza amore non c’è vita.
E amare qui vuol dire concretamente rispondere alle necessità. “Money free to nobody”, (denaro gratis a nessuno) mi scappa di dire spesso, il che è un tentativo assurdo di porre una barriera tra me e le loro necessità. Poi sento dentro l’amaro, ultimo giudizio: avevo fame, avevo sete, ero ammalato e non vale la pena di giustificarmi dicendo che sono bugiardi, che mi imbrogliano, perché so con certezza che è la loro situazione di vita a dirmi la verità.
Sono prete e religioso e non posso sdoppiarmi. Il che vuol dire che non mi sento tale quando prego o quando predico e basta. Mi sento tale sempre e forse avverto di più l’impegno della mia consacrazione proprio in questo lasciarmi coinvolgere con la situazione dei poveri.
Un gesto concreto di carità è certamente più evangelizzatore di una parola per quanto piena di verità e di amore ed è anche l’unico modo che ci è stato insegnato da Gesù per vivere autenticamente la nostra fede. Solo che per riuscire a farlo sento la continua necessità della comunione con Gesù, senza di lui mi stuferei presto e mollerei tutto.
Per anni sei stato Giuseppino in Italia ed ora vivi in Sierra Leone (nazione al penultimo posto nelle classifiche Onu sull’indice di sviluppo umano): don Maurizio, ma quando vedremo l’alba di un mondo più fraterno, più giusto?
Ogni anno aspetto con curiosità la classifica dell’Onu sullo sviluppo umano. E anche quest’anno è uscita puntualmente e la Sierra Leone si classifica ancora una volta all’ultimo posto. All’ultimo posto anche per quello che riguarda la situazione dei bambini (rapporto dell’Unicef). ‘”Dopo di noi gli animali della foresta” è l’amaro, giornalistico commento.
Lontano da me l’idea di giudicare, ma sono ancora amaramente colpito da quelle tre bottiglie diverse, una gasata, una così così e l’altra liscia, che facevano bella mostra di sé a soddisfare la sete dei commensali nella tavola di una normalissima famiglia. Altrove 125.000.000 di bambini devono faticare per l’acqua quotidiana ogni giorno e ogni anno 1.500.000 di essi morirà di dissenteria dopo averla bevuta. L’impatto con la povertà mi confronta ogni giorno con la verità del Vangelo e la coerenza della fede. I ricchi oggi sono ricchi e aumentano in ricchezza mentre diminuiscono di numero. I poveri oggi sono poveri e aumentano in povertà e aumentano anche di numero.
E non sono popolari, a loro la porta viene spesso sbattuta in faccia.
“Quando i pesci piangono nessuno vede le loro lacrime” dice un proverbio sierraleonese e ci fa pensare. A quando un mondo più giusto? Non lo so e non lo aspetto, solo non voglio essere parte di coloro che lo rendono così ingiusto e allora cerco ogni giorno di portare una piccola goccia di condivisione e solidarietà.
Abbiamo letto in una tua lettera ai benefattori che “questi anni in Africa hanno cambiato la tua vita per sempre” e che “senza un povero per amico la vita non può essere significativa”: puoi spiegarci meglio …?
Vorrei avere la capacità espressiva di un poeta o di uno scrittore per raccontare da dove sono nate queste convinzioni e quando.
Testimone per anni di violenza gratuita contro i più deboli ho imparato ad orientare il mio cuore e la mia mente verso gli indifesi e i deboli. Un religioso Giuseppino per vocazione più che per contratto ama e protegge chi soffre. Qui ho vissuto e sperimentato la sofferenza e ho capito come la vita di un umiliato e di un offeso sia così facile da distruggere. Ho dovuto scegliere e ho scelto di stare dalla parte del sofferente. La Sierra Leone popolata da disperazione e vittime mi ha dato una occasione irripetibile per vivere la mia vocazione. Ho sentito nascere dentro di me la predilezione per i poveri e i sofferenti e da qui non torno indietro. Sono cambiato e per sempre. Ed è nata in me anche la convinzione che questo non vale solo per me religioso e sacerdote, ma per tutti coloro che scelgono di seguire Gesù e di vivere la loro vocazione cristiana. Dalla parte dei poveri non può essere solo uno slogan affascinante, ma una scelta che porta a vivere in amicizia con loro. “Tu ci vuoi bene”, me lo sono sentito dire poche volte, ma è valso molto di più di tutte le centinaia di volte che mi hanno detto: “hai fatto molto per noi”.
Ricordo con chiarezza un momento di vita con i ragazzi in casa famiglia Murialdo; forse è stata una sfida, ma subito non me ne ero accorto. Stavamo mangiando il solito riso condito con foglie di cassava, pesce, carne.
Normalmente mi portavano un piatto tutto per me e un cucchiaio. Quella volta no, il piatto era comune e tutti mangiavano con le mani, solo io avevo il cucchiaio. Quando ho cominciato a mangiare uno alla volta mi hanno presentato la loro bocca aperta perché io ci infilassi il cucchiaio pieno. L’ho fatto con tutti quelli che erano attorno a me e poi c’è stato come un attimo di attesa per vedere se io avessi continuato ad usare lo stesso cucchiaio per mangiare. Tranquillamente ho infilato in bocca il cucchiaio che avevo in mano e con cui in precedenza li avevo imboccati. La tensione si è calmata e una di loro ha detto: si, lui ci vuole bene. Non era diretta a me questa frase e non avrei dovuto sentirla, ma mi ha fato capire come al di là delle cose necessarie per vivere cercassero la certezza dell’amore e dell’amicizia e l’hanno trovata nel gesto di condivisione del cucchiaio.
Un messaggio finale per i tutti?
Lo prendo da san Paolo: “A ciascuno di noi è stata data una particolare manifestazione dello spirito per il bene di tutti”. Parla di una ricchezza che io ho e che hanno tutti gli altri. Nessuno è inutile.
Parla di fiducia in sé stessi e di rispetto per tutti gli altri. Siamo diversi e per questo reciprocamente utili e necessari. Parla di necessaria condivisione e solidarietà e le mette come motivo del nostro esistere.
Per il bene di tutti: ecco perché viviamo. Ciao a tutti don Maurizio.
Martedì 24 febbraio 2015